La vita

LA NEVE

Il primo ricordo è la neve. Ho pochi anni, tre quattro. Guardo dai vetri della finestra nell’orto del vicino tutto coperto di bianco. Non è qualcosa di confuso, è tutto chiaro alla mente: ricordo il mio stupore, e la mamma che dice: ” A vit, babin, cvela l’è la néva” (vedi, bambino, quella è la neve).
E lo stupore si rinnoverà sempre, per tutta la vita, quando la neve scenderà dal cielo e io la guarderò e uscirò all’aperto per stare con lei, con la sua intensità d’incantamento. Altro non posso dire, se non che è veramente cosa ineffabile, che mi prende tutto e mi dà pace.

LA FAMIGLIA

Sono nato a Castiglione di Cervia (Ravenna) il 15 maggio 1927 (erroneamente riportato nell’anagrafe comunale 20 maggio), il minore di cinque fratelli, quattro maschi e una femmina. Il primo, che mia mamma spesso ricordava come “il povero Lino”, morì prima ch’io nascessi. Aveva sei anni, e fu portato via dalla “spagnola”, la malattia pandemica che infierì nel 1918-19 e provocò la morte di milioni di persone. La mamma mi diceva che “il povero Lino” aveva un visino che assomigliava alla sorella Lina, e che portava una berrettina rossa. Per questo fratellino, che non ho potuto conoscere (nemmeno una fotografia), ho pianto. Poverino, solo sei anni! E quanto deve aver sofferto.

Fin dove arriva la mia memoria c’è la mamma, che continuamente mi coccola, mi prende in braccio anche solo per spostarmi di pochi metri. E io sto bene con lei, non me ne posso staccare. Mi parla, mi racconta del cane “Nero”, che avevano prima ch’io nascessi; lo chiama “il povero Nero”, aveva gli occhi buoni. E ancora di quella volta che mio fratello Laudo voleva tagliare le unghie al gatto, perché non si arrampicasse più sugli alberi e così poterlo prendere. La mamma che mi recitava filastrocche, che mi comprava un etto di fichi secchi quando qualcosa del pranzo o della cena non mi piaceva. Oggi pare incredibile, ma quei fichi erano una festa. E così la mostarda. Potrei dire di essere cresciuto a pane, fichi e mostarda. Più raramente potevo mangiare datteri, erano un lusso: costavano otto soldi l’etto, il doppio dei fichi: un soldo valeva cinque centesimi di una lira.
Una filastrocca che la mamma mi recitava più frequentemente era dei primi del Novecento, quando lei aveva undici anni:

Stamatena apèna alzè
a so armast imbarazè:
a j ò vest pasè la porta
un uslaz cun una sporta.
“Cus’ el cvel?” ò dimandè.
“Pol pasè o un pol pasè?”
U m’à arspost una duneta
cun la lèngva sieta sieta:
“L’è ora ades s’a vli savé
cvel ch’a dbi e cvel ch’a magné;
l’è stè melnovzentesì
– a ve degh s’a ne savì –
ch’uv darà un gran dafè
e moltant da sbadajè”.

Stamattina appena alzato / sono rimasto imbarazzato: / ho visto passare la porta / un uccellaccio con una sporta. / “Cos ‘è quello?” ho domandato: / “Può passare o non può passare?” / Mi ha risposto una donnetta / con la lingua sciolta sciolta: /” È ora adesso se volete sapere / quello che bevete e quello che mangiate; / è stato millenovecentosei /-ve lo dico se non lo sapete -/ che vi darà un gran daffare / e molto da sbadigliare”.

La mamma che per tutta la vita, fino a novantun’anni, mi diceva ancora: “Babin, fa ben a là in zir pr e’ mònd!” (Bambino, fa’ bene là in giro per il mondo!).
Il babbo era un barrocciaio, e per molti anni l’ho visto affaccendato in quel suo duro mestiere. Quante notti si alzava per attaccare i cavalli al barroccio (“la baroza”), sempre aiutato da mia mamma! Poi partiva, illuminando fiocamente la strada con la lanterna che dondolava appesa sotto il barroccio. Una sera -avevo otto anni -mi prese con lui per portarmi a Forlì, dove andava a vendere fieno. Vissi con grande emozione il viaggio e, ancor più, il trovarmi in città sul carico di fieno; prima di dormire, in una nicchia coperta da un tendone, guardai a lungo una lampada che illuminava lo spiazzo dov’era il barroccio. Mi svegliai all’alba, e il babbo mi portò in un’osteria, uno stanzone dove prendemmo il caffellatte. Sono piccole cose, ma allora erano importanti, e io vorrei tornare lì, con il babbo. Povero babbo, dove sei? […]

E qui voglio inserire, cosa minima per chi leggerà, ma che per me va ben oltre il ricordo d’infanzia, come dirò… Una sera, il babbo, tornando da uno dei suoi carreggi, aveva portato due minuscole marionette ballerine: con un filo legato a una gamba della tavola e un altro, più lungo, tirato a piccoli strappi, le si facevano saltellare. Il filo era per lo più mosso da mio fratello Egisto, mentre la mamma cantava: “E’ bala la Carlota e la Rusina!” (Ballano la Carlotta e la Rosina!). Ricordo bene quanto e quale incantamento era in me; un ricordo che è più della nostalgia, perché rivivo tutto dentro adesso come allora, come veramente fossi ancora lì con la Carlotta e la Rosina, e la mamma e tutti. Piccole marionette perdute nel tempo, eppure ancora qui, sempre presenti. E lo saranno quando nessuno di noi sarà più, e lo saranno anche se nessuno le ricorderà, anche quando saranno un nulla. Lo saranno perché ci sono state. E così che va la vita, è così che va tutto.[…]

Durante la guerra, quando nell’ultimo periodo prima del passaggio del fronte eravamo sfollati nella casa di un contadino, nella larga “Valle Sbrozzi”, il babbo tornava talvolta a casa nostra, e in una di queste occasioni venne coperto quasi interamente dalla terra sollevata a imbuto da una bomba, caduta nel campo del vicino. Era solo, e faticò a liberarsi. Lo accogliemmo dolorante e spaventato, e io ebbi seriamente timore di perderlo.

Era veramente molto buono, ma non espansivo, e fu così che mi commossi quando, unica volta nella sua vita, mi baciò in fronte: era venuto a trovarmi a Cervia, dove abitavo da poco più di un anno, dopo sposato, ed ero a letto malato di pleurite secca. Esprimeva così il suo affetto e la sua preoccupazione. Aveva sessantaquattro anni, io ne avevo ventisette; quando morì ne aveva solo settantatré, e fu dopo una paralisi di pochi giorni. Non poteva parlare, gli parlavo io: “Ba, fat curag, prest ta t’arfaré, t’staré ben” (Babbo, coraggio, tra poco ti riprenderai, starai bene). Mi guardava con occhi che capivano.

I miei rapporti con i fratelli sono sempre stati un poco distaccati, forse per pudore di manifestare affetto, comprensione. Del resto non ero certamente incoraggiato a un diverso atteggiamento soprattutto dal maggiore, Laudo, che mi h,a trattato sempre con arroganza. E ce l’aveva un po’ con tutti. E morto a ottantotto anni. Egisto era diverso, a lui piaceva motteggiare. Mi divertiva. Di lui non posso dimenticare il grande regalo che mi fece quando, soldato, tornato inaspettatamente a casa in licenza, mi portò l’antologia di Giovanni Pascoli, Poesie, Mondadori, 1941; in quarta di copertina leggo ancora: “Da Gisto che tornava a casa in licenza da Gioia Tauro. Avuto la notte tra il 6-7 ottobre 1942”. È morto a ottantunanni. La sorella Lina, rude, ma generosa, ha lavorato come casalinga e bracciante, ma si è impegnata in mille modi, senza mai sosta.

LA NONNA

Era la nonna materna, la nonna Assunta (Sunta), e con lei stavo bene. Mi raccontava che aveva lavorato nella risaia, dovendo per questo recarsi verso Cesenatico, percorrendo a piedi ogni giorno più di dieci chilometri prima dell’alba, e altrettanti al ritorno, dopo il tramonto. Ora aveva un campetto e un filare d’uva. La vendemmia era una festa; si mobilitava tutta la famiglia e qualche parente, e io mi eccitavo, aiutavo come potevo, o anche solo seguendo il lavoro dei vendemmiatori. Finita la vendemmia, e prima della pigiatura, si era invitati tutti a casa della nonna per un pranzo speciale, dove primeggiava una sua ricetta, il riso con le uova sbattute. Ma prima della vendemmia la nonna era in ansia, nel timore che il brutto tempo rovinasse tutto, tanto che la notte precedente l’importante avvenimento quasi non dormiva, affacciandosi spesso alla finestra per scrutare il cielo.

Per stare con la nonna e seguirla nel suo lavoro, qualche volta mi sono alzato molto presto accompagnandola nella spigolatura del grano. Godevo il risveglio della campagna, quando il canto degli uccelli punteggia chiaramente il mondo, e fantasticavo fermandomi davanti a un’alta e folta siepe di spini che, in fondo al campo, per me nascondeva l’ignoto.
La nonna mi raccontava cose del suo passato (era un passato remoto, essendo nata nel 1862) e ricordando anche ciò che aveva appreso dalla voce di un suo bisnonno, vissuto nel Settecento. Mi impressionava sempre quando mi diceva che in quei tempi lontani c’erano notti in cui una voce da un lontano casolare gridava: “Aiuto, i lédar! Aiuto, i lédar!” (Aiuto i ladri!). E mi narrava fiabe e favole e mi recitava filastrocche, ma ascoltava anche le fiabe e le favole che inventavo, improvvisando. Mi incantavo soprattutto quando recitava canti narrativi religiosi in una lingua epico-lirica con base romagnola, canti popolari di grande suggestione. Li avevo imparati a memoria, e così li ritenni a lungo: due di questi li ho poi ritrovati pubblicati su una rivista (“Lares”, Olschki, 1964) e tuttora li conservo con amore: L’orazione di San Fabiano e La leggenda di Sant ‘Antonio.
Era devota la nonna, ma non bigotta. Molte volte l’ho seguita a messa nell’antica, suggestiva pieve di Pisignano.
Ci lasciò a ottantacinque anni, sedici dopo il nonno Nando, che ricordava sempre con venerazione. Nella mia memoria il nonno lo incontro solo una volta: è sulla strada, indossa un corpetto, e mi sorride.

LA CASA PATERNA

Costruita nel 1925, con una spesa di quindicimila lire, constava di due camere, una da letto e una per pranzo e cucina; poco prima della guerra vi si aggiungeranno altri due vani. Non aveva soffitta, robuste travi sostenevano tavelle e coppi, così che si avvertiva pienamente la sonorità del picchiettio della pioggia: era una musica cullante che ascoltavo quanto più potevo, fino a che il sonno mi coglieva, dolce e profondo. […]
La stalla era appoggiata al retro della casa; lì i cavalli erano ben accuditi, e mi piaceva soprattutto quando il babbo, usando la striglia, li spazzolava fino a tirare il pelo a lucido. E non mancava mai, appesa alla porta e rinnovata ogni anno, l’immagine di Sant’Antonio Abate, protettore degli animali.

L’ampio cortile era in parte occupato da pagliai di fieno e di paglia. C’era un orto abbastanza grande, dove erano stati piantati anche ciliegi, prugni, meli, peri. Quel che più mi piaceva era cercare di prendere le libellule che si posavano sui pomodori incannucciati.
Nel lato nord della, casa c’era uno stretto giardino dove ho trascorso molte ore. E stato lì che in un pomeriggio d’estate -aveva appena spiovuto -io e mio cugino Natalino facemmo solenne promessa che non avremmo mai dimenticato i due soldi che lui aveva in mano. Doveva essere un ricordo d’infanzia, che qualche volta, negli anni, ci avrebbe riportato lì, nel giardino, ancora ragazzi. Oggi, Natalino dice che non erano due soldi, ma quattro. Non so. E certo che stavamo ormai salutando la fanciullezza.
La casa c’è ancora. Vi tomo spesso, e talvolta mi fermo a guardare, sui mattoni esterni, le scritte e i disegni incisi in anni lontani, graffiti della mia infanzia.

IL BORGO

È La Zela (La Cella), un piccolo gruppo di case una addossata all’altra. Questo è il borgo vero e proprio, anche se a pochi metri ci sono altre case, compreso un palazzotto, da ricondursi comunque a quella denominazione. Ma il fatto è che chi abita in questa seconda parte se deve recarsi al centro del borgo dice che va alla Cella.[…]
A nord il borgo è delimitato dal fiume Savio, con una riva coperta da un’albereta, interrotta per un breve tratto da una golena che, per noi ragazzi, era un luogo quasi mitizzato. E in quel fiume, ma non nel tratto della golena, ritenuto pericoloso per i suoi gorghi, facevamo il bagno, accompagnati dallo sciabordio dei panni lavati dalle donne del borgo e non solo.
In estate i vecchi, pipa in bocca, e alcuni con la giannetta, si raccoglievano, con tacito appuntamento, all’ombra di una capanna della corte, e talvolta ne nascevano delle dispute.
Tra i “protagonisti” della comunità del borgo ne ricordo particolarmente tre:
Fis-cin (Fischietto), che impagliava fiaschi e damigiane e costruiva cesti – con i vimini raccolti lungo il fiume – appollaiato sul pianerottolo di una scala di legno esterna alla casa. Si mostrava sempre allegro – come un grillo diceva la gente – cantando e soprattutto fischiettando per tutta la giornata.

Michilena (Giacomo Siroli) non perdeva occasione per parlare dell’Africa, fino a introdurla in ogni discorso, anche il più lontano dall’argomento trattato, con un “Anch’io quand’ero in Africa…” Era stato in Etiopia durante la guerra 1935-36 a lavorare come operaio, e si era salvato fortuitamente quando nel porto di Massaua al piroscafo “Cesare Battisti”, che avrebbe dovuto riportarlo in patria, erano scoppiate le caldaie.
Ma la scena del borgo era dominata da E’ Paron (Gaetano Barbanti), un vecchio falegname. Bastava chiedergli l’età di Nostro Signore che lui subito chiudeva gli occhi piegando leggermente la testa all’indietro, portando una mano sotto il mento, perché cominciasse a… contare, partendo dai canonici trentatré anni, fino a enumerare cifre che elencavano ordinatamente quanti mesi, giorni, ore e minuti aveva vissuto!
Un altro dei suoi pezzi forti era quando, verso sera, usciva improvvisamente dalla bottega per esibirsi in un canto popolare ticinese (era emigrato in Svizzera in gioventù?), Il canto del cucù:

L’inverno l’è passato,
l’aprile non c’è più,
è ritornato maggio
al canto del cucù.
Cucù, cucù,
l’aprile non c’è più
è ritornato maggio
al canto del cucù.
Lassù per le montagne
la neve non c’è più,
comincia a fare il nido
il povero cucù.
Cucù, cucù
ecc.
La bella alla finestra
la guarda in su e in giù
la spetta il fidanzato
Al canto del cucù.
Cucù, cucù,
ecc.
Te l’ho pur sempre detto
che maggio ha la virtù
di far nascer l’amore
al canto del cucù.
Cucù, cucù,
ecc.

LA SCUOLA

Il primo giorno di scuola… avevo un anno: sono nelle braccia della Lina in una fotografia con tutta la scolaresca della sua classe. Un’altra fotografia è, invece, del vero primo anno scolastico: la guardo, esaminando uno a uno tutti i compagni, i vivi, i morti e quelli di cui non so più nulla, da tanto tempo; li riconosco tutti, e mi piace pensarli tutti in quell’età.
Ma io a scuola non volevo andare, forse per timidezza, o per timore di non poter più giocare. Il fatto è che il primo giorno non volevo entrare nel palazzone, mi spaventava. E mio fratello Egisto mi tirava per un braccio e io, spaventato, lasciavo una traccia profonda, coi miei scarponi, nella ghiaia del cortile. Dovetti comunque rassegnarmi, ma se il primo anno fui, non so come, promosso, ripetei il secondo, poiché si era rafforzata in me la ritrosia a quella frequentazione. Essere ripetenti fu, però, salutare: infatti, provai vergogna, tanto da mettermi a studiare di buona voglia, fino a risultare, da lì in avanti, sempre il primo della classe; la maestra mi mandava nelle altre classi a leggere i miei temi d’italiano, materia nella quale primeggiavo, e così in storia e in geografia. Poco mi piaceva la matematica. Alla fine la maestra consigliò i miei di farmi continuare nello studio, e fu così che da Castiglione di Cervia passai a Castiglione di Ravenna per frequentare quella che allora chiamavano la “sesta” (ma che era il primo corso professionale a tipo agrario), conseguendo anche un ottimo esito, e ripetendosi i consigli, questa volta dei professori, a continuare. Ma fu inutile: c’era il fascismo e i poveri non potevano pagarsi studi superiori.[…]

In “sesta” ebbi la fortuna d’incontrarmi con La Divina Commedia: il professore, veramente appassionato del poema, riuscì a entusiasmarci. Questo veniva incontro ai miei desideri, li stimolava, poiché da quando mi ero interessato allo studio adottavo un metodo che seguivo con costanza, e che consisteva nel prestare attenzione alla lezione svolta in classe dall’insegnante, per tenerla bene a mente in caso d’interrogazione, e per avere quindi tempo per altre letture, altro studio, a casa, per conto mio. E fu così che studiai, tra l’altro, lo spagnolo, perché lo sentivo lingua molto musicale.

Voglio concludere con… le scarpe strette, con le quali dovetti fare i conti, proprio mentre frequentavo la “sesta”. Prima non avevo mai posseduto un paio di scarpe basse, nere, lucide; quelle che chiamavano le scarpe “belle”. Quando mia sorella me le provò, a casa, i piedi si ribellarono, ma io non dissi del dolore che sentivo, perché temevo che se avessi detto che quelle scarpe non erano della mia misura, poi le avrebbero riportate al negozio, e io non avrei mai più avuto le scarpe “belle”. E così tutti i giorni soffrivo le pene dell’inferno, e si gonfiarono sempre più i geloni, che nessuna pomata poteva guarire. E poco giovava il pediluvio ben caldo, tutte le sere.

I GIOCHI

Quanto ho giocato nella mia infanzia? Dio solo lo sa. E non avevamo giocattoli, li dovevamo inventare, costruire con pezzi di legno o altro, anche modellare creta, quasi fossimo come le rondini che sfrecciavano sul fiume, prendevano quell’argilla dalla stretta spiaggia per costruire il nido sotto la grondaia della casa, dalla parte del giardino. Era un gioco anche seguire a lungo il volo delle rondini, osservare il loro lavoro, fino a quando avrebbero imbeccato i ciangottanti rondinotti.

Una volta modellai un piccolo busto di Giulio Cesare, che conservai a lungo, fino a che andò perduto durante la guerra. Di quel mio… capolavoro scultoreo ho ancora nostalgia.
Eravamo quasi in continua ricerca di qualcosa con cui giocare, e fu proprio un giorno di queste “ricognizioni”, con i miei cugini Mario e Natalino, che fummo sorpresi con tanto di “baffi” di sugo, dopo che avevamo inzuppato pezzetti di pane nel tegamino del soffritto. A mia cugina alga, che ci chiese chi aveva mangiato il sugo, rispondemmo che erano stati i gatti. E lei ci rimproverò, dicendo che i gatti eravamo noi, lo si vedeva dai “baffi”. Eravamo i “gatti rossi”. E a lungo il borgo ci chiamò così. Povero Mario, morto in mare, a vent’anni, nella tragedia della guerra. Se tu fossi qui, ti chiamerei “gatto rosso”… Ma i gatti rossi sono rimasti fermi in quel tempo, e nessuno più li vede, nessuno più lo sa.[…]

LA CAMPAGNA

È la campagna di una volta: campi di grano, di barbabietole da zucchero, di erba spagna, di filari di viti.
È la fatica dei mietitori con la falce, piegati per intere giornate sotto il sole di giugno, dei cavatori di radici, dei falciatori, dei vendemmiatori.
I filari di viti erano sostenuti da olmi e da pali ambolaterali detti “schioppi”. Il vino era la cagnina, il sangiovese, il trebbiano, il pignolino, il pagadèbit. La pigiatura veniva eseguita a piedi nudi. Fin da ragazzo ho aiutato i miei nella vendemmia degli otto filari che conducevano a terzeria (due terzi del prodotto a favore del proprietario).

E c’era l’aratura con l’aratro tirato dai buoi e dalle vacche; mi sentivo importante quando il contadino m’invitava a mettermi davanti a quei quadrupedi e dar loro la voce nella non lieve fatica. Erano gli stessi che avremmo ritrovato durante le veglie invernali nelle stalle, dove la gente stava al caldo: le donne filavano, gli uomini raccontavano storie, o fiabe e favole.
I confini tra i poderi erano perlopiù delimitati da siepi di biancospino, lungo le quali si facevano scorpacciate di bacche, piccole e rosse, che chiamavamo zrisoli (ciliegiuole).
E camminavamo scalzi da marzo a settembre.[…]

LA VIGILIA DI NATALE

Perché la vigilia di Natale, la sera in particolare, sia per me uno dei giorni più attesi, ogni anno, non saprei dire. Del resto non ho bisogno di capirlo, sento che è così e questo mi basta. Gesù Cristo ci ha trasmesso un messaggio di bontà e fratellanza come evento liberatore dell’umanità. Ma questi sentimenti sono stati e sono largamente sopraffatti, poiché violenza, prepotenza, ignoranza, cattiveria, stupidità, invidia hanno sempre dominato. Ma il messaggio di giustizia, se non la giustizia, c’è, nonostante tutto, e fosse anche solo un sentire che ci dà pace momentanea, non dobbiamo respingerlo, anzi coltivarlo come speranza.
E forse simbolo di questa speranza sono anche le candele che, tutti gli anni, accendo quella sera.

LA GUERRA

…E venne il giorno che le stagioni non erano più quelle. C’era come un’aria pesante, che gravava sugli uomini e sulle cose: la gente parlava di guerra. E la guerra venne, la gente l’aveva fiutata, preannunciata. Ci furono partenze, separazioni, i primi morti.
Le parole del “duce”, che annunciava la dichiarazione di guerra, le avevo ascoltate mentre camminavo sull’erba e le margherite nella proda della strada che mi portava a giocare dai miei compagni Rino e Guerriero. L’altoparlante le aveva portate lì, in un mondo che avremmo perduto per sempre. Una notte si fermarono soldati tedeschi, con i cavalli, alla fontana del borgo. Udivo distintamente le voci, erano i primi tedeschi della mia vita, e io avevo paura. Era la prima volta che ascoltavo la loro lingua, secca, tagliente. Così la sentivo. Solo più avanti negli anni avrei goduto, nella lirica di Holderlin, i suoni armonici e rigorosi di quell’idioma.

Intanto dovemmo nasconderci più di una volta, per sfuggire ai rastrellamenti: ci nascondevamo nei campi, la notte dormivamo all’aperto, sotto gli alberi; passammo poi negli umidi rifugi sotterranei – scavati da noi stessi – quando gli Alleati cominciarono i bombardamenti.
In attesa del passaggio del fronte di guerra, ero stato mortificato, come tanti, nelle angosciose giornate dello sfollamento. Era stato ormai inevitabile allontanarci a buona distanza dalle case. Dormivamo nei fossi, nelle stalle, in nicchie scavate nei pagliai (povera nonna, anche lei!).
Una scheggia si era conficcata in terra, con orribile sibilo, a dieci centimetri dalla mia testa, durante un bombardamento, mentre ero riparato in un fosso e un attimo prima mi ero spostato indietro proprio di quei dieci centimetri!

Un tedesco mi aveva calpestato, per fortuna senza vedermi, mentre ero nascosto sotto un mucchio di pannocchie di granoturco (mi aveva coperto la mamma). Aveva rincorso, poi perduto di vista, un giovane disertore dell’esercito “repubblichino”, e se mi avesse visto mi avrebbe scambiato per il fuggitivo. Cercava e cercava, pistola alla mano, bestemmiando infuriato.
Poi i tedeschi in fuga uccisero civili, solo perché si trovarono sul loro passaggio, in mezzo ai campi o nelle strade.

La guerra finì quando compivo diciotto anni, e la speranza che tutto potesse diventare migliore era tanta. Ma ci furono attese senza ritorno. Anche il povero Aldo non tornò. Era il fidanzato della Lina, che lo pianse e pianse, fino a rifiutare il cibo, fino ad ammalarsi: e questo per anni. Era perito nell’affondamento del piroscafo inglese che trasportava i prigionieri dalla Libia verso il Sudan e che aveva subìto il bombardamento di aerei tedeschi.
Dalla Libia il povero Aldo aveva spedito la Gerusalemme liberata.

SOLDATO

Nel settembre 1948 partii per il servizio militare di leva a Brescia. Fui poi a San Giorgio a Cremano (Napoli), dove conseguii l’attestato di centralinista, potendo così passare alla caserma “Mameli” di Milano. Durante il corso di centralinista potevo isolarmi, in attesa di messaggi, godendo di molto tempo libero, che impiegai per una rilettura approfondita della Divina Commedia. Nell’agosto 1949, poco prima di venire congedato, trascorsi circa un mese a Passo Penice (Piacenza).
Il servizio era discretamente sopportabile, anche per il conforto di tanti amici, che non ho dimenticato.

GIULIANA

La vidi, la prima volta, quando aveva diciotto anni, io diciannove, a casa di sua cugina Caterina, e rimasi subito incantato dalla sua cordialità e bellezza, e, forse ancor meglio, splendore del volto, che ha mantenuto nel tempo. Ci fidanzammo quasi subito, e così in seguito mi fu cara anche per la sua bontà e generosità. Ci sposammo sei anni dopo. Sono passati più di cinquant’anni e noi stiamo bene insieme.
E di lei non posso tacere l’eccezionale laboriosità e, soprattutto, di essere dotata di una virtù che Vittorio Sereni chiamava “l’intelligenza del cuore”.
Figlia di contadini, sorella di cinque femmine e due maschi.

IL LAVORO

Come quasi tutti, allora, fui ben presto avviato al lavoro, ad apprenderlo almeno, che non voleva dire solo guardare gli altri che lavoravano, ma rendersi subito utili, sia pure in mansioni elementari. Furono i miei due fratelli a volere che mi incamminassi nel mestiere di meccanico, al quale non mi sentivo proprio portato. Avevo tredici anni quando entrai nell’officina del tornitore Giamareto (Geremia Zoli) a Castiglione di Ravenna… La prima settimana me la pagò con due lire: era il primo salario della mia vita, e pedalai verso casa trafelato per annunciarlo trionfalmente. Dopo un mese ero già passato a uno scudo (cinque lire).

In seguito passai all’officina di Marten (Martino Sirilli), sempre a Castiglione di Ravenna, e lì rimasi fino all’agosto 1944, quando avevo compiuto diciassette anni e l’officina era già da tempo praticamente occupata dai soldati tedeschi. Nei primi mesi dello stesso anno erano stati intensificati i rastrellamenti di civili, e fu così che una sera, era già buio, mentre tornavo a casa dal lavoro, fui preso e rinchiuso, con altri, nella caserma dei carabinieri, e rilasciato dopo poche ore. Non direi di questo episodio minimo se non dovessi ricordare qualcosa che mi rimase fortemente impresso: eravamo tutti ammassati nell’atrio della caserma, quando udii una voce che chiamava, sommessamente, da un finestrino a sbarre. Mi avvicinai e vidi il volto di un uomo; mi accostai ancor più e il prigioniero disse: “Io devo morire, ma voi resistete, combattete il nazismo e il fascismo!”.

Alla fine della guerra non volli rientrare in officina. Mi avviai ai campi coi braccianti. Il lavoro era faticoso, ma le giornate trascorrevano bene, mi sentivo libero e forte. Ascoltavo i discorsi degli anziani, stavo quasi sempre con loro, poiché mi incantavano i racconti di vita vissuta a fine Ottocento. Contavano delle prime lotte per il riscatto dei lavoratori, le loro sofferenze, la loro miseria. Avevano poi costituito l’importante cooperativa agricola di Castiglione di Cervia, con l’acquisto dell’azienda “E’ Bàgn” (Il Bagno).
Tra i mestieri della mia vita, quello che ricordo con nostalgia è quello di bracciante. Lavoravo, faticavo, ma ascoltavo anche le allodole, alte nel cielo. E ricordo tanti, tanti compagni di lavoro.

LA NOSTRA CASA

Costruita a Cannuzzo di Cervia, sul terreno defalcato dall’eredità di famiglia di Giuliana, è una casetta a pianterreno. E’un appartamento abbinato a quello della sorella di Giuliana, Maria, e del marito Sandrin (Grassi Alessandro). E’ l’amico mio più caro, morto poco dopo più di tredici anni trascorsi insieme quasi quotidianamente. Era un artigiano, un falegname, ma che seguiva diverse cose con grande interesse, e si rivolgeva a me con tante domande,perché diceva che io leggevo e lui voleva informarsi. Fu una morte repentina, a soli quarantotto anni, e per me crollo un modo fiducioso di sentire e pensare la vita ….. La nostra casa sorge a pochi metri dal fiume Savio e dal ponte di Matellica, ricostruito dopo la fine della guerra,essendo stato abbattuto dalle mine tedesche […] Ma torniamo alla casa per dire, senza retorica, che non la cambierei con nessun’altra, perché da molti anni è li che viviamo.[…]

NIPOTINE E NIPOTINI

Io e Giuliana siamo stati zii di molte nipotine e alcuni nipotini. Ma qui voglio dire solo dichi abbiamo concorso ad allevare.

Giampiero, figlio di Dina, una sorella di , Giuliana, ha potuto avvalersi delle nostre attenzioni ormai molti anni fa. Era spesso a casa nostra prima dell’età scolastica, poi, sempre, durante le vacanze estive. […]Quando, finito l’anno scolastico, lo andavo a prendere per riportarlo a casa nostra, esclamava:”Evviva! Vado verso la mia libertà!”.

Seguendo in ordine cronologico, è poi venuta Paola, figlia di un’altra sorella di Giuliana, Maria e del caro amico Sandrin.Pur abitando nell’appartamento abbinato al nostro è vissuta quasi esclusivamente da noi fino ai dodici anni.[…]Oggi abita a Cervia con il suo compagno ed è mamma di due meravigliosi bambini: Cecilia e Federico.Prima della scuola materna sono stati spesso a casa nostra. Ci danno tanta gioia.

E diremo di Simona e Natascia, figlie di un’altra sorella di Giuliana, Marta.[…] Con loro abbiamo giocato, trascorso vacanze al mare e in montagna. A loro ho raccontato moltissime fiabe e favole. Per Natascia e Simona avrei voluto fermare nel tempo il loro gioioso stupore quando, in una slitta improvvisata,furono trainate da un cane sulla neve nei campi. Il loro stupore, un sogno in un mondo tutto bianco![…]