Lettera ad un amico

“Caro Tolmino”, Lettera ad un amico

di Gianfranco Lauretano

Caro Tolmino,

ricordo che quando venivo a casa tua mi aspettavi sempre con un foglietto di appunti. Di solito un foglio di block-notes, strappato al resto della sua famiglia, piccolo, a quadretti, di carta un po’ ingiallita. Nei giorni precedenti, soprattutto quelli dall’ultima telefonata in cui ti chiedevo l’appuntamento per venire a trovarti, tu ci avevi appuntato sopra le cose da dirmi, come se quel tempo fosse tutto di attesa, da riempire con le cose importanti, necessarie, da non dimenticare. Così la prima parte della visita passava a riferirmi ad uno ad uno gli argomenti di quella tua lista compilata con cura, con una calligrafia attenta e un po’ infantile, che mi ricordava quella di mia madre e di mio padre, tuoi coetanei: la calligrafia di un’altra epoca, quando i segni erano molto più importanti e non c’erano tastiere ed ogni lettera era quasi scavata via dalla penna e tracciata sul foglio con un’attenzione e un valore da incisore.

Gli argomenti erano vari, legati alla poesia, ma non solo. Mi chiedevi sempre della mia famiglia, soprattutto di mia figlia, Cla babina, a cui hai dedicato una poesia su quella volta che è venuta a trovarti assieme a me e scorrazzava per casa, per la felicità tua e di Giuliana, stupiti come sempre di fronte ai bambini, ai nipoti da scarriolare, al negrino bellissimo che Giuliana avrebbe voluto adottare. La tua poesia ha sempre opposto i bambini al mondo del potere, degli adulti che non si accorgono dei segni, della calligrafia del mondo che passa, rarefatta e perfetta, nelle tue pagine, e tu li hai sempre guardati con lo sguardo meravigliato di chi guarda un miracolo, una cosa che non è scontato che ci sia. E, a ben pensare, è anche lo stesso sguardo con cui accoglievi ogni tua poesia: ogni volta un piccolo miracolo, che avrebbe potuto essere l’ultimo (e quante volte, negli ultimi anni, specialmente dopo l’uscita di una nuova raccolta, mi hai detto che non avresti scritto più. Per fortuna, in questo caso, ti sei sbagliato).

Tu sei un poeta che si stupisce del sorgere della propria poesia, nell’attimo stesso in cui essa viene al mondo. Da qui nasce il tuo scrivere essenziale, che sembra per frammenti, ma non è frammentario, perché, semplicemente, non lo eri tu. Le epifanie sono molto brevi. I poeti frammentari, invece, hanno dubbi e lacune, nessun centro, e forse un po’ si baloccano con questa storia novecentesca dell’incomunicabilità, che francamente ha un po’ stufato. Tu al contrario avevi certezza nel mondo, nella capacità di ritrovargli un senso con il tuo lavoro, sapevi che il bene c’è e sapevi distinguerlo dal male: la tua poesia infatti è sempre anche altamente morale. Così le note sul foglietto mi riferivano di letture fatte in giro per l’Italia, di incontri con critici letterari o con scolaresche che si innamoravano della poesia per merito tuo, di nuovi libri e di scoperte di autori che mi consigliavi e anche della presunzione di sedicenti poeti che ti si presentavano sicuri nella loro prosopopea e che tali non erano affatto. Una distinzione che ti ho sentito fare quasi sempre quando parlavi in pubblico è quella tra versificatori e poeti. Ma in privato parlavi piuttosto di piadaioli e di poeti, e soprattutto non sopportavi quelli che pensavano che bastasse scrivere in dialetto per essere grandi autori, secondo una moda dilagante.

La parte più bella della lettura del foglietto era il finale, quando piegandolo lo mettevi via, chiedevi Abbiamo detto tutto, no? e tiravi fuori altri fogli, scritti a macchina con una vecchia Olivetti, quelli dove avevi trascritto le poesie fresche di creazione. Me ne dicevi il numero, sempre esiguo, raccontavi spesso le occasioni da cui erano nate, sempre misteriose, mai del tutto spiegabili, come un dono del cielo, e non me le leggevi; aspettavi che fossi io a chiedertelo, cosa che non ho mai mancato di fare. Così mi godevo il privilegio di sentire le tue nuove poesie lette da te ad alta voce, forse per la prima volta. Mi chiedevi cosa ne pensavo, ma io dicevo sempre che erano belle, perché non ci vuole molto a far sì che il tuo stupore passi in quelli che ti ascoltano. Le tue poesie toccano luoghi dell’anima incredibilmente profondi; si potrebbe forse dire persino che in certi momenti sono metafisiche; eppure chiunque, fosse professore o illetterato, le capisce immediatamente. Forse quell’anima di cui tu racconti giace in molti addormentata: non ci pensano da tempo, non sanno più di averla. Ma se ti ascoltano accade immediatamente che ciò che viene toccato si risvegli e all’improvviso uno si accorge di essere un uomo e di abitare in un mondo stupefacente che chiede di essere conosciuto e abbracciato.

Per quello che credo io, dove sei adesso quella stupefacenza è assoluta, e i miracoli di cui la tua poesia ci ha costantemente informato fioccano come la neve che hai così tanto amato da dare il suo nome a quello che è, probabilmente (e il “probabilmente” lo dicevi tu) il tuo capolavoro. La tua casa oggi ha cambiato abitanti, i tuoi libri stanno cambiando casa per tua espressa volontà, ma niente è diverso. Secondo me nel cortile Giuliana passa ancora, a sistemare le faccende, a curare gli animali. Forse è seduta di fuori, vicino al muro, come la vedemmo quella volta io e l’amico poeta Franco Casadei: venuti in visita volevi presentargli la Giuliana e la Maria e le trovammo di fianco alla casa, con i piedi nella bacinella piena d’acqua, appena imbarazzate ma non troppo, piuttosto divertite e ridenti come due bambine. Se dovessi dire cos’è la Romagna, il suo vero spirito, direi di quelle due anziane ragazzine a cui basta un pediluvio in un cortile di campagna per essere felici. E con te che ne eri fiero.
Non hai resistito molto senza la Giuliana. Due mesi e mezzo. Poi hai dovuto raggiungerla. La vostra vita, i vostri impegni, gli affetti, perfino quel suo modo di vivere la tua poesia, così discreto eppure potente nell’esprimere di un testo l’unico vero giudizio critico che ci interessa (“questa l’am piis”), li avete sempre vissuti insieme, profondamente uniti. Perché non la morte, allora? Perciò ti chiedo un’ultima cosa, amico mio, maestro, Tolmino: dove sei adesso preparami il foglietto. Prendi nota di tutto quello che la tua concreta intelligenza reputa degno di interesse, trascrivi le nuove poesie con la tua vecchia ed efficace macchina da scrivere e quando arrivo dimmi, raccontami, leggimi tutto, come hai sempre fatto. Sarà bello, dopo che mi hai regalato il mondo, ricevere da te anche il cielo.

Gianfranco Lauretano